I trascendentali in rapporto alle dimensioni della relazionalità e della storicità

admin • dic 09, 2012

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prof.d. Mauro MANTOVANI
Seminario di studio Pensare i trascendentali tra teologia, filosofia e scienze umane
UPS, Facoltà di Filosofia, 25 novembre 2012

1) Ens, unum, aliquid (aliud quid), verum, bonum (filosofia)

2) La verità come bellezza dell’unità grazie alla bontà (teologia, nel rapporto tra verità e amore)

3) Domanda: che rapporto c’è tra i trascendentali e la relazionalità e storicità? Possono essere pensate “quasi” come trascendentali?

Per quanto segue, i riferimenti essenziali e più completi si possono trovare nelle seguenti pubblicazioni: M. MANTOVANI, Persona e relazione, tra teologia e filosofia, in M. SODI – L. CLAVELL (a cura), “Relazione”? Una categoria che interpella, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2012, pp. 69-82; M. MANTOVANI, L’amore come “essere di più”. Una nuova metafisica?, in Proceedings Metaphysics 2009, 4th World Conference, Fondazione Idente di Studi e di Ricerca, Roma 2012, pp. 153-166 [www.romemetaphysics.org; ISBN: 978-84-9982-226-6].

La relazionalità

Tommaso d’Aquino ha un’emblematica nel Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo secondo la quale, riprendendo sant’Agostino, la persona (umana) è veramente se stessa quando ama, e non quando semplicemente è (In I Sent., d. XV, q. V, a. 3, ad 2m).

Nel Commento alle Sentenze, proprio dove tratta della pluralità delle persone in Dio (Utrum in Deo ponenda sit personarum pluralitas), il Dottore Angelico sostiene decisamente che “ ideo simpliciter dicendum est, quod pluralitas personarum est realis ” (In I Sent., d. II, q. I, art. 5). Anche nella Summa Theologiae troviamo questo caposaldo della speculazione trinitaria dell’Aquinate: le “ relationes quae secundum processiones divinas accipiuntur, sint relationes reales ” (Summa Theologiae I, q. XXVIII, a. 1). Tommaso d’Aquino conclude così che “ relatio realiter existens in Deo est idem essentiae secundum rem ” (SummaTheologiae, q. XXVIII, a. 2), e che la “ relatio in divinis non est sicut accidens inhaerens subiecto, sed est ipsa divina essentia: unde est subsistens, sicut essentia divina subsistit […]. Persona igitur divina significat relationem ut subsistentem. Et hoc est significare relationem per modum substantiae quae est hypostasis subsistens in natura divina; licet subsistens in natura divina non sit aliud quam natura divina ” (Summa Theologiae, q. XXIX, a. 4). Sono questi alcuni dei riferimenti principali quando si parla della dottrina delle persone della Trinità come “relazioni reali sussistenti”.

Tra gli studi più recenti sulla dottrina trinitaria del Dottore Angelico, si evidenzia l’interpretazione “forte” del tema della “differenza” proposta da G. Ventimiglia, secondo cui per l’Aquinate il diversum “ riveste un’importanza del tutto fondamentale al livello dell’ontologia, perché esprime il carattere distintivo dell’esse in quanto è irriducibile al genere. L’aliud è la garanzia di Tommaso contro ogni forma di essenzialismo, il baluardo a difesa della realtà, della irriducibile individualità degli enti, dell’intimità dell’esse negli enti ” (G. Ventimiglia, Differenza e contraddizione. Il problema dell’essere in Tommaso d’Aquino: esse, diversum, contradictio, 236).

Il diversum apparirebbe dunque come una proprietà coestensiva dell’ens, identica per dignità ontologica all’unum: “‘Aliquid’ non significa, dal punto di vista del contenuto concettuale, ‘ qualcosa ’, ma ‘ aliud quid’ , ed è per questo motivo che viene inserito non già tra le proprietà trascendentali dell’ente considerato ‘per sé’, ma dell’ente considerato ‘in relazione ad altro’, esprimendo la trascendentalità della relazione di differenza. Ovunque c’è essere, lì c’è anche – dice Tommaso […] – nello stesso tempo, unità e distinzione, l’‘uno’ e, insieme, l’‘altro’” (Ib., 245). Ciò evidentemente si mostrerebbe anzitutto nella considerazione del rapporto tra Dio e il mondo, che si evidenzia segnato dal diversum: per l’ontologia tomista, infatti, solo se l’essere possiede in se stesso la differenza, se è internamente ed essenzialmente differenziato, allora si può porre la radicale e originaria differenza tra l’Essere e gli esseri.

Per Tommaso d’Aquino, afferma ancora Ventimiglia, “ l’essere di Dio è diverso da quello mondano, e ciò significa […] che non si differenzia ‘per l’aggiunta di qualcosa’ (ciò corrisponderebbe al concetto di ‘differente’ dello Stagirita) ma ‘per se stesso’ ” (Ib., 237). Questo sarebbe il proprium dottrinale della concezione dei trascendentali e dell’ontologia tomista in generale, così da includere la possibilità “ di pensare alla coappartenenza originaria di identità e differenza in tutta l’estensione dell’essere, nella misura in cui la distinzione che ne preserva la incontraddittorietà è valevole per tutto ciò che è. Come è facile vedere, infatti, la distinzione tra la ratio ‘in se’ e la ratio ‘in ordine ad aliud’ vale al livello dell’ens trascendentale di cui si parla nel trattato relativo del De veritate, come pure al livello dell’Essere divino, identico, come noto, dal punto di vista della ratio ‘sostanza’ e diverso dal punto di vista della ratio ‘relazione’. Con la distinzione tra identità quanto all’esse e differenza quanto all’essenza, invece, non si sarebbe potuti arrivare così lontano ” (Ib., 261).

In questa originale interpretazione dell’ontologia tomista si può così rimarcare la considerazione che questo dato ontologico della trascendentalità del diversum consegue evidentemente ad una radice ed a motivazioni profondamente teologiche, in particolare proprio perché permetterebbe all’Aquinate, sempre secondo Ventimiglia, di chiarire meglio proprio l’idea della reale distinzione delle Persone divine nell’unico Essere sussistente. A proposito del “numero” delle Persone divine, evidenzia il nostro autore, “ Tommaso nota che il numero suppone la molteplicità e questa a sua volta la divisio. Quindi la questione diventa subito puramente filosofica: o la divisio è una perfezione, ed allora potrà essere detta di Dio positivamente, e così pure la molteplicità ed il numero, oppure non è una perfezione, ed allora il numero potrà essere detto di Dio solo negativamente e metaforicamente. Era quest’ultima […] la soluzione adottata da tutti i Padri e gli ‘antichi dottori’, come pure da tutti i teologi precedenti Tommaso, fedeli al dogma neoplatonico della indivisibilità dell’Uno e del carattere imperfetto della differenza. […] Così, per la prima volta nella storia della teologia, Tommaso decide di rompere con tutta la tradizione teologica neoplatonica precedente e, con la Metafisica di Aristotele alla mano, afferma non solo che la divisio è una perfezione, ma che essa è addirittura un trascendentale dell’essere, e perciò si ritroverà a pieno titolo in Dio ” (Ib., 239).

Queste le motivazioni fornite da Ventimiglia per dar ragione di questa notevole “novità”: “sollecitato dal Mistero della santissima Trinità ed aiutato dalla Metafisica e dalla Fisica aristoteliche, che a quei tempi cominciavano a diffondersi per la prima volta nell’Occidente latino, Tommaso elaborò una visione dell’essere in cui la differenza era considerata addirittura come suo trascendentale. […] La fede nella Differenza delle Persone, aiutando Tommaso nella comprensione del carattere trascendentale della differenza, lo portò ad elaborare il concetto dell’originario differenziarsi dell’essere, che è esattamente ciò che lo distingue profondamente da ogni genere e ne assicura la concretezza. La capacità di differenziarsi da sé, senza l’aggiunta, l’addizione, di qualcos’altro: questo è, per Tommaso, il segno di riconoscimento di tutto ciò che esiste realmente. Forse è nascosta proprio qui l’originalità della sua ontologia ” (Ib., 295).

Dal punto di vista speculativo, la questione fondamentale emergente dalla teologia trinitaria di Tommaso d’Aquino è dunque proprio quella del rapporto tra l’Essenza divina e le Persone divine, cioè l’unità e la distinzione, l’uno e il molteplice, la persona e la relazione. G. Emery sostiene che questa opposizione tra ciò che è comune e ciò che è proprio delle tre Persone deriverebbe dalla mancanza di attenzione alla vera e propria sintesi che l’Aquinate offre proprio sul tema della relazione: un suo primo aspetto, infatti, la rende identica all’Essenza divina, mentre l’altro aspetto proprio della relazione è il puro riferirsi ad un altro soggetto senza dividere la sostanza. Le relazioni sussistenti e distinte in Dio sono le Persone divine, che non si devono pensare in maniera nonrelazionale o pre-relazionale (cf. Emery, Trinity in Aquinas, 198-207).

Attorno al concetto di relazione spesso vengono infatti discusse diverse tematiche dal punto di vista dell’interpretazione dell’ontologia tomista, per esempio sulla relazione trascendentale e la diversità o la pluralità trascendentale dell’essere. Nel modo di dire il numero tre delle Persone divine è evidente che per il Dottore Angelico la pluralità non va intesa in senso quantitativo, ma in quello trascendentale: con ciò si indica che, come l’unità esprime l’indivisione intrinseca, ciascuna delle Persone “ non è divisa in sé ” e ciascuna “ non è un’altra ”. Quindi in modo positivo si afferma la distinzione tra le Persone, mentre con l’unità dell’Essenza si esprime che sono un solo Essere indiviso. Tommaso d’Aquino chiarisce così l’uso appropriato delle varie espressioni (nella q. 31) a proposito del mistero trinitario: “Trinità” esprime un determinato numero tre dei soggetti di un’unica essenza, non per somma di essenze ma per comunanza di natura divina. L’alterità di una Persona dall’altra va espressa secondo l’Aquinate come “ alius ”, come un altro soggetto, anziché utilizzare “ aliud ”, che indica un’altra essenza. Nel contempo le poche righe riservate da Tommaso al trascendentale “aliquid” nel De Veritate I, 1 (“ Si autem modus entis accipiatur secundo modo, scilicet secundum ordinem unius ad alterum, hoc potest esse dupliciter. Uno modo secundum divisionem unius ab altero, et hoc exprimit nomen aliquid: diciture nim aliquid quasi aliud quid, unde sicut ens dicitur unum in quantum est indivisum in se ita dicitur aliquid in quantum est ab aliis divisum ”) rinviano anche alla lettura proposta da G. Ventimiglia: “ l’inserzione del diversum tra i trascendentali non è dettato soltanto da esigenze ontologiche: si tratta anche di motivazioni teologiche. La trascendentalità del diversum, infatti, permette a Tommaso di chiarire meglio l’idea della reale distinzione delle Persone divine nell’unico Essere sussistente ”. (G. Ventimiglia, Differenza e contraddizione. Il problema dell’essere in Tommaso d’Aquino: esse, diversum, contradictio, 238).

Seguendo quindi il Dottore Angelico nella sua definizione di persona sia in generale sia nella particolarità delle persone divine, si può ovviamente evidenziare, a partire da questi dati teologici e metafisici, una ricca e profonda prospettiva anche antropologica in chiave di relazione e di natura spirituale. Nonostante sia affermato che solo la Persona divina “è” la relazione sussistente in quanto Essere assoluto, e la persona umana non “è” la relazione, nell’antropologia tomista si sostiene che l’uomo è “immagine di Dio” (cf. Summa Theologiae I, q. 93): per questo analogamente si potrebbe dire che al suo proprio livello anch’egli, in qualche modo, “è” la relazione. Tuttavia lo è soltanto in modo accidentale, e non sostanziale: la persona umana dunque, proprio in quanto è analogamente dotata di natura spirituale, si potrebbe affermare che “è relazione con gli altri” proprio per la sua libertà di amare. Per questo la persona umana è veramente se stessa quando ama, e non quando semplicemente è.

Se consideriamo invece la prospettiva di un teologo contemporaneo, il vescovo tedesco Klaus Hemmerle , anch’egli afferma che se parlando delle persone divine va ovviamente detto che ciascuna di esse dal punto di vista dell’essenza non ha assolutamente bisogno di perfezionarsi o in qualche modo di “divenire” pienamente se stessa (nemmeno passando dall’essere all’amore), perchè semplicemente è pienezza della perfezione divina, tuttavia se si considera la relazione interpersonale intratrinitaria, realtà rivelata del mistero del Dio Uni-Trino, il manifestarsi di quella “ relazionalità intrinseca dell’actus essendi divino ” implica una relazione d’amore in cui lo “svuotamento di sé” nell’autodonazione si presenta non solo come condizione per pensare insieme l’uno e il molteplice, ma dice proprio nella massima profondità possibile “l’essere dell’Essere di Dio”, in cui la relazionalità è intrinseca. Il Padre è Padre in relazione al Figlio; il Figlio è Figlio in relazione al Padre: l’atto del generare e dell’essere generato non è qualcosa di estrinseco che si aggiunge alla Persona, ma Ciascuno è nel fatto stesso del generare e nell’essere generato, dunque nel donarsi. Solo così ciascuna Persona dice Sé non in relazione a Sé, ma nell’Altro, quindi come Persona eternamente donantesi, Atto di “relatività reciproca” che è Amore. È questo il dato fondamentale che il pensatore tedesco ha posto come base dell’impianto del suo pensiero filosofico e teologico volto ad offrire una “nuova” ontologia nella quale, proprio perchè basata sull’Uni-Trinità divina, trovassero spazio da una parte la “purezza” dell’actus essendi dal punto di vista dell’essenza come pienezza di perfezione e assoluta privazione di qualsasi tipo di potenzialità passiva, e d’altra parte la “purezza” – dal punto di vista della persona – della relazione d’amore.

Proprio questo aspetto, secondo Hemmerle, apre lo spazio ad un discorso che – grazie all’illuminazione trinitaria dell’ontologia [teo-onto-logia], specifica del cristianesimo, ma che nel contempo mostra di poter raccogliere tanti aspetti profondissimi di verità e di sapienzialità presenti anche in altre religioni e tradizioni culturali e filosofiche – giunge alla considerazione della categoria del non-essere relazionale nella relazione d’amore. In questo senso troverebbe una “luce” interpretativa anche il percorso spesso assai travagliato della filosofia e della teologia degli ultimi secoli, quasi a cogliere che …proprio grazie all’apporto stesso dei “moderni” e dei “contemporanei”, anche se a volte postisi in prospettive assai lontane dall’integralità del contenuto della fede, ha creato in certo senso le condizioni per poter oggi cogliere ancor meglio la grande pregnanza ed indispensabilità di un’ontologia autenticamente trinitaria.

Il mistero trinitario rivela infatti una prospettiva basata sul principio del dono-accoglienza reciproca che esprime l’unica vera modalità di “essere-sé” pienamente, nell’unità e nella diversità, relazionalmente, “essendo Tutto-per”, in cui trova un suo spazio anche il non-essere relazionale.

Non è dell’essenza – afferma G. Zanghì – che si può dire: è perché non è, ma della persona, la quale (la Trinità ce lo rivela) è trascendenza, non-essere rispetto a qualsiasi limite, non però come rigetto di esso ma come accoglimento: e dunque per questo è ” (Zanghì, La filosofia ha ancora oggi un destino?, 637). Così si esprime C. Lubich: “sono tre le Persone della Santissima Trinità, eppure sono Uno perché l’Amore non è ed è nel medesimo tempo. Nella relazione delle Persone divine cioé, ciascuna, perché è Amore, compiutamente è non essendo: perché tutta pericoreticamente nell’altra Persona, in un eterno donarsi” (Per una filosofia che scaturisca dal Cristo, in Nuova Umanità 1997/3-4, 372).

In questo senso risulta davvero prezioso ed illuminante il ricorso al “modello trinitario”. Sempre nella Caritas in veritate si ribadisce proprio come nel mistero della Trinità possa darsi, rispetto al rapporto tra unità e differenza, il supremo “modello divino” che illumina anche le relazioni tra gli uomini lungo la storia: “ alla luce del mistero rivelato della Trinità si comprende che la vera apertura non significa dispersione centrifuga, ma compenetrazione profonda. Questo risulta anche dalle comuni esperienze umane dell’amore e della verità. Come l’amore sacramentale tra i coniugi li unisce spiritualmente in ‘una carne sola’ (Gn 2,24; Mt 19,5; Ef 5,31) e da due che erano fa di loro un’unità relazionale e reale, analogamente la verità unisce gli spiriti tra loro e li fa pensare all’unisono, attirandoli e unendoli in sé ” (CV, 54).

Per il pensiero antico – già scriveva J. Ratzinger da teologo negli anni ’60 –, divina è soltanto l’unità; la molteplicità si presenta invece come elemento secondario, come frammentazione dell’unità. Essa proviene dalla dissociazione e tende sistematicamente ad essa. Ora, la professione di fede cristiana in un Dio visto come uno e trino, come ente che è contemporaneamente ‘monas’ e ‘trias’, vale a dire unità assoluta e pienezza perfetta, comporta la convinzione che la Divinità sta al di là delle nostre categorie di unità e pluralità […]. Quindi non soltanto l’unità è divina, ma anche la molteplicità è qualcosa di originario, avendo il suo fondamento intrinseco in Dio stesso. […] Tale è in sostanza soltanto la fede nella Trinità, che riconosce un pluralismo nell’unità di Dio, vedendo in esso la definitiva esclusione del dualismo come principio esplicativo della realtà affiancata all’unità; solo grazie a questa fede, riceve un ancoraggio definitivo la valutazione positiva della molteplicità ” (J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, 139).

In questo senso “la Trinità è assoluta unità, in quanto le tre Persone divine sono relazionalità pura. La trasparenza reciproca tra le Persone Divine è piena e il vincolo dell’una con le altre totale, perché costituiscono una assoluta unità e unicità” (CV, 54). Può così effettivamente darsi una riflessione che – pur assicurando la necessaria attenzione a non identificare e a necessariamente distinguere (analogicamente) ciò che riguarda le relazioni intratrinitarie da quanto concerne le relazioni di carattere creaturale (qualsiasi esse siano) – possa intendere l’amore come “essere in pienezza”, “essere di più”, alla luce del mistero trinitario, proprio perché – come afferma ancora Caritas in veritate – “ Dio vuole associare anche noi a questa realtà di comunione: ‘perché siano come noi una cosa sola’ (Gv 17,22). Di questa unità la Chiesa è segno e strumento” (CV, 54).

Anche per il pensiero di J. Ratzinger, dunque, la categoria teologica e cristologica di relazione riveste un significato ed un’importanza fondamentali, così come il concetto di persona occupa un posto centrale. La prospettiva di Dio stesso come Relazionale è un dato che – come giustamente rileva A. Aguilar – segna l’interpretazione ratzingeriana della distinzione essenziale tra il Dio della fede e il Dio dei filosofi (cf. J. Ratzinger, Il Dio della fede e il Dio dei filosofi, Marcianum Press, Venezia 2007), basata proprio sulla relazionalità: “ Il Dio filosofico è essenzialmente rapporto solo a se stesso, in quanto è pensiero esclusivamente auto-contemplante. Il Dio della fede, invece, è fondamentalmente inquadrato nella categoria della relazione. È l’immensità creatrice, che abbraccia l’universo. Ne risultano così un quadro e un assetto del mondo completamente nuovo: la più alta possibilità di cui l’essere è dotato, non viene più ad identificarsi con la scioltezza assoluta d’un soggetto che basta solo a se stesso e sussiste per conto suo. La suprema modalità dell’essere include invece l’elemento ‘relazionale ’” (J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, 107. Cf. A. Aguilar, La nozione di “relazionale” come chiave per spiegare l’esistenza cristiana secondo l’Introduzione al cristianesimo, 189).

Si legge infatti nell’Introduzione al cristianesimo: “ Se è vero – come è vero – che la persona è più dell’individuo, che il molteplice è un essere originale e non solo un fattore secondario, che esiste una supremazia del particolare sull’universale, vuol proprio dire che l’unità non è il dato unico e definitivo, ma che anche la molteplicità ha pieno e imperituro diritto all’esistenza. Questa conclusione, che fluisce per intrinseca necessità dall’opzione cristiana, conduce automaticamente anche a superare l’idea di un Dio che è sola ed esclusiva unità. […] Non esiste persona come entità singola a sé stante, assolutamente isolata ” (J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, 119-120, 139 e 178).

Per quanto riguarda il rapporto tra persona e relazione all’interno della teologia trinitaria, Ratzinger utilizza spesso l’espressione “un essere in tre persone” che via via viene chiarita dalla teologia cristiana proprio attraverso la considerazione delle persone come relazione: “ La relazione, l’esser riferimento, non è qualcosa di aggiuntivo alla persona, ma è la persona stessa; la persona esiste qui, per sua essenza, soltanto come riferimento ” (J. Ratzinger, Dogma e predicazione, 178). Il Padre, afferma Ratzinger, è “la dedizione, pura realtà attiva” (Ib.); il Figlio “non ha un’identità separata dalla relatività al Padre” (P. Scarafoni, La “persona” nel pensiero teologico di Joseph Ratzinger, 168. Cf. J. Ratzinger, Dogma e predicazione, 178; Introduzione al cristianesimo, 138- 146), e lo Spirito Santo – nota P. Scarafoni – nel pensiero di Ratzinger potrebbe essere definito come “l’appartenenza ad un altro” (P. Scarafoni, La “persona” nel pensiero teologico di Joseph Ratzinger, 169-170).

Una essentia tres personae risulta dunque essere la verità che illumina la considerazione specificamente cristiana della realtà personale, del rapporto tra l’assoluto e il relativo, e del rapporto tra unità e molteplicità: “ con la costatazione che Dio è sì sostanzialmente Uno, ma pure esiste in lui il fenomeno d’un’attività dialogica, d’una distinzione e d’un rapporto di colloquio, per il pensiero cristiano la categoria della ‘relazione’ venne così ad assumere un’importanza completamente nuova.
Per Aristotele, essa rientrava fra gli ‘accidenti’, […] che si distinguono dalla ‘sostanza’, intesa come unica forma portante della realtà. L’esperienza di un Dio dialogante, d’un Dio che non è soltanto ‘Lógos’ ma anche ‘diá-lógos’, non solo mente e pensiero, ma anche colloquio e parola scambiata vicendevolmente fra interlocutori, è quanto mai sintomatico. Un’esperienza del genere, infatti, scardina fin dalle radici l’antica suddivisione della realtà in sostanza, intesa come componente primaria e genuina, ed accidenti, intesi come componente soltanto casuale. Ora appare chiaro che, accanto alla sostanza, si trova anche il dialogo, la ‘relatio’, intesa come forma ugualmente originale dell’essere ” (J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo, 139.).

Richiamando ancora il pensiero di sant’Agostino, Ratzinger in modo assai interessante evidenzia come proprio oggi, in rapporto con le stesse caratteristiche del pensiero moderno, questo tipo di riflessione possa essere colto con ancora maggiore pregnanza (cf. ib., 140-141). È interessante riflettere sull’aspetto fondamentale del presupposto filosofico che sottende alla categoria ratzingeriana di relazione, che si configura come la discussione sull’eventuale trascendentale metafisico del relazionale, categoria teologica che costituisce – almeno secondo A. Aguilar – “ un’energia ancor poco usata per lanciare la filosofia a raggiungere orizzonti ancora inesplorati. Il pensiero filosofico non sembra aver intravvisto la forza rivoluzionaria e le potenzialità nascoste in questa verità: ‘La suprema modalità dell’essere include l’elemento relazionale’ ” (Aguilar, La nozione di “relazionale” come chiave per spiegare l’esistenza cristiana secondo l’Introduzione al cristianesimo, 208-209).

Se J. Ratzinger sviluppa dunque assai chiaramente nell’Introduzione al cristianesimo la categoria teologica di relazione, ci si può anche chiedere, al di là delle questioni interpretative circa il suo pensiero: si dà un fondamento filosofico a questa prospettiva, elaborando una metafisica della relazionalità ?

A questa domanda risponde positivamente lo stesso A. Aguilar proponendo il concetto di relazionale come aspetto essenziale dell’intera realtà, anzi – tecnicamente – come vero e proprio trascendentale. Egli intende il trascendentale come “un aspetto o attributo di tutto ciò che esiste, ossia di tutti gli elementi mentali ed extramentali, fisici ed immateriali, temporali ed eterni.

Si tratta, quindi, d’una proprietà che si trova analogicamente – e cioè in diversi modi e gradi – in tutte le sostanze e in tutti gli accidenti, ossia in tutti gli individui e in tutte le modificazioni degli individui. Per essere riconosciuta come trascendentale una proprietà deve avere quattro caratteristiche:

(1) essere analogicamente applicata a tutti gli enti;

(2) avere un significato che non contenga una nozione d’imperfezione, poiché viene attribuita a Dio come sua fonte;

(3) essere una nozione evidente alla ragione umana;

(4) essere distinta, nel suo significato, dalle altre nozioni trascendentali” (Ib., p. 210).

Secondo Aguilar, se a proposito dei trascendentali il riferimento obbligato è offerto dalla dottrina di Tommaso d’Aquino nel De veritate (ens, res, unum, aliquid, verum, bonum), questo schema potrebbe essere ulteriormente completato – oltre che dalla eventuale discussione circa il pulchrum – “ considerando l’ente non già in se stesso né soltanto in relazione ad altri enti e all’anima umana, bensì considerandolo in relazione alla propria capacità di relazione, ossia in quanto è attivo, dinamico e, quindi, in quanto stabilisce un costante rapporto con se stesso e con gli altri enti. […] Si noti che parliamo di relazionalità e relazionale e non di ‘relazione’. La relazione (dal latino re-latus, ‘portato indietro’) è un aspetto o qualità che allaccia due o più enti. Si tratta di un accidente, ossia d’una modificazione secondaria d’una sostanza, d’una categoria metafisica, e non d’un trascendentale. […] La relazionalità è, per così dire, la sorgente e il sottofondo di tutte le relazioni. Essa si esprime simultaneamente a tutti i livelli o gradi ontologici di cui gode un ente.
[…] Essere, quindi, significa essere relazionale. Nessun ente può venire all’esistenza e sussistere senza questa energia vincolante che lo rende capace di mantenere la propria struttura mentre interagisce con altri enti. Nessuna realtà è statica. Un ente che non sia più capace di rapportarsi con se stesso e con gli altri è stato assorbito dal regno della morte e del nulla” (Ib., 211-212).

La prospettiva cristiana, infatti, apre il pensiero filosofico alla considerazione originaria della relazionalità, fondamentale per cogliere in pienezza il significato della nozione stessa di persona. Ciò tuttavia non corrisponde necessariamente – come talvolta troppo frettolosamente può capitare in qualche autore animato dall’assai lodevole intento di dare fondamento al personalismo relazionale – alla collocazione del vocabolo di “relazione”, in antropologia, allo stesso livello di quello di “sostanza”. Ciò sarebbe improprio, poiché il concetto di “relazione” viene normalmente attribuito a una delle nove categorie accidentali che modificano una sostanza, e per questo potrebbe risultare sempre ambiguo. In senso trascendentale potrebbe essere invece proposta – così come suggerisce Aguilar – la discussione a proposito della nozione di “relazionale”, elevato in questo modo effettivamente al “rango” di trascendentale dell’essere:
il relazionale non è una ‘categoria’ né un concetto; esso è piuttosto una ‘nozione’, ossia un trascendentale necessariamente implicito, dal punto di vista gnoseologico, in ogni concetto, e, dal punto di vista ontologico, in ogni categoria extramentale. […] Se è vero che Dio e l’uomo sono tali nella misura in cui si relazionano, bisognerebbe dire che, in qualche modo, analogicamente, anche ciò accade negli enti infra-umani. Dio non può creare se non a sua immagine; egli lascia la sua impronta trinitaria in tutto ciò che chiama all’esistenza. Va perciò incoraggiata una riflessione sistematica della relazionalità trascendentale ampliata a tutto il reale, che metta in rilievo le somiglianze fra Dio e il resto del creato, al tempo stesso che sottolinea le differenze. Se l’essenza di Dio è quella di essere relazionale, allora, includendo gli esseri più piccoli come gli atomi e i quark, devono essere relazionali. Il grado di essere corrisponde naturalmente al grado di relazionalità e viceversa ” (Ib., 214).

Interessante a questo proposito segnalare ancora due contributi, pur da diverse prospettive, di autori spagnoli contemporanei. Nella sua “filosofia genetica” Fernando Rielo ritiene tipico della filosofia occidentale l’aver “assolutizzato l’identità”, pur avendola rivestita di un’apparente dinamicità; il nostro autore propone allora di giungere ad una visione della realtà segnata dalla corrispettiva elevazione “ad assoluto” della relazione: prima la geneticità della relazione, contro l’ageneticità dell’identità. Secondo la filosofia rieliana, infatti, “ la negazione dell’identità, rotto il ‘io sono io’ e ‘l’essere è l’essere’, rende visibile per la metafisica una concezione genetica della relazione, che elevata ad assoluto, non fa altro che ‘videnziare’ un metafisico ‘essere+’ costituito almeno da due termini in immanente complementarità intrinseca che siano a loro volta la massima espressione dell’essere ” (J.M. López Sevillano, Le chiavi del pensiero metafisico di Fernando Rielo, in D.G. Murray [a cura di], La metafisica del terzo millennio, 134-135]. “ Cioè due esseri personali che costituiscono un unico principio assoluto: non meno di due, perché incorreremmo nel vuoto dell’identità ‘essere è essere’; non più di due, perché una terza persona, non essendo necessaria alla semplicità assoluta alla veggenza razionale per costruire la concezione genetica del principio di relazione, è un eccedente metafisico. Due sono i termini in immanente complementarità intrinseca perché senza di questa non potrebbero darsi due esseri personali realmente distinti costituendo un unico principio assoluto ” (Ib.).

Il filosofo Leonardo Polo (cf. L. Polo, L’uomo, via verso Dio, in L. Romera [a cura], Dio e il senso dell’esistenza umana, 89-100) propone a sua volta una teoria dei “trascendentali umani” che andrebbe aggiunta a quelli elaborati nel Medioevo. Egli afferma che affinché Dio sia accessibile dalla prospettiva antropologica, è necessario formulare una “antropologia trascendentale” ampliando il realismo metafisico con quello antropologico, e proponendo una “metafisica dell’uomo” in cui i trascendentali personali non vengano intesi come “universalissimi” ma come “aperti”, che cioè vanno “oltre se stessi”, si trascendono. Questa sarebbe la particolarità di uno studio dell’essere come persona e non solo come principio..

Secondo Polo se si distingue l’essere umano dall’essere che è oggetto della metafisica, si scoprono nuovi trascendentali: il co-esistere (“un’intimità aperta”, il con-essere, essere accompagnandosi: “detto in altre parole – afferma Polo – una persona sola non ha senso. Le persone sono irriducibili, e, per ciò stesso, coesistono), la luce intellettuale, la libertà, l’amore che si dona (che implica “l’accettazione”). Queste per Polo sono anche “vie antropologiche” verso l’Assoluto.

La storicità

Per trattare il tema in forma adeguata, anzitutto bisogna definire cosa si intende per storicità. Non sarebbe infatti un trascendentale dell’essere se esistesse almeno un ente non storico, se ve ne fossero di non soggetti alla storicità. Non sarebbe nemmeno un “trascendentale umano” se la storicità fosse considerata caratteristica anche degli esseri infraumani.

Sia antropologicamente che “metafisicamente” a nostro avviso risulta fondamentale, in ogni caso, la considerazione del tema dell’”arricchimento ontologico”. Se questa categoria non può essere ovviamente applicata all’Assoluto e al modello trinitario, ove si dà semplicemente pienezza di perfezione, tuttavia proprio il “modello divino” diventa luce con cui guardare ad ogni dimensione dell’esistere creaturale caratterizzata da una “struttura d’essere” intrinsecamente volta ad “essere di più”. L’Enciclica Caritas in veritate assai bene declina diversi ambiti nei quali questa sapienzialità può trovare concretizzazione nelle “vicende umane”, anche sociali ed economiche; del resto è proprio questo il tema – sul quale non manca di intervenire papa Benedetto XVI – in cui possono mostrarsi con particolare risalto la specificità del cristianesimo e della vita cristiana, e la loro incisività e “novità” sulla dimensione storico-esistenziale, tali proprio perché a tutti gli effetti radicalmente “ontologiche”:

Il Battesimo – ha affermato J. Ratzinger – è una cosa ben diversa da un atto di socializzazione ecclesiale, da un rito un po’ fuori moda e complicato per accogliere le persone nella Chiesa. È anche più di un semplice lavanda, di una specie di purificazione e abbellimento dell’anima. È realmente morte e resurrezione, rinascita, trasformazione in una vita nuova: ‘Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me’ (Gal 2,20). Vivo, ma non sono più io. L’io stesso, la essenziale identità dell’uomo […] è stata cambiata. Egli esiste ancora e non esiste più. Ha attraversato un ‘non’ più io. Paolo con queste parole non descrive una qualche esperienza mistica […], no, questa frase è l’espressione di ciò che è avvenuto nel Battesimo. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande. Allora il mio io c’è di nuovo, ma appunto trasformato, dissodato, aperto mediante l’inserimento dell’altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza ” (Benedetto XVI, Omelia nella Veglia pasquale nella Notte Santa, Basilica di San Pietro, 15 aprile 2006. Cf. anche L. Leuzzi, Eucarestia e carità intellettuale. Prospettive teologico-pastorali dell’Enciclica Caritas in veritate, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009; Dalla fede religiosa alla fede teologale. L’anno della Fede per la nuova evangelizzazione, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2012).

Tommaso Demaria attraverso la proposta di una “metafisica organico-dinamica” intende anch’egli “pensare in profondità” il tema dell’arricchimento ontologico che viene dalla relazione che tocca la nostra dimensione storica. Egli infatti, sviluppando la propria riflessione nell’ambito della metafisica della realtà storica, considerata come ente dinamico di secondo grado, concentrava la propria antropologia sul tema della crescita nell’essere: si diviene “di più” solo divenendo ontologicamente “altro” da sé, accettandosi come parte di un tutto che potenzia e apre spazi di crescita nell’essere.

L’interesse per la prospettiva demariana emerge soprattutto, a nostro avviso, dal suo aver applicato la categoria dell’arricchimento ontologico grazie alla considerazione dell’ente di primo e di secondo grado, e vedendo la persona umana nel contempo sia come ente di primo sia come ente di secondo grado.

Anche in Demaria si ritrova l’intento della valorizzazione estrema della dinamica della relazione, che giunge fino al concetto filosofico limite di trans-personalità, dato che il vivere e l’agire umano “parlano sempre al plurale”. Per il filosofo e teologo salesiano, infatti, la libertà umana consiste nel “diventare persona cellula” secondo la “logica del noi”.

Una volta scoperta, infatti, la natura organica della realtà storica, si apre (anzi viene fondato) secondo Demaria uno spazio di effettivo esercizio della libertà personale perché l’iniziativa si inserisce come accettazione e vita nella logica della parte, e proprio per questo si rende libera.

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